
Riconosciuto come il disturbo dell’età dello sviluppo più comune, e il più studiato, l’ADHD (disturbo da deficit di attenzione e iperattività) è però poco considerato in Italia, anche nell’effettivo tasso di prevalenza. Sulla stima incidono le caratteristiche del disturbo: comorbidità, bassa specificità dei sintomi, sovrapposizione con disturbi del comportamento e del sonno. Arrivare a una diagnosi è dunque un iter complesso, soprattutto quando a occuparsi di salute mentale è il servizio pubblico.
Secondo la lunga esperienza sul campo di Maurizio Bonati, responsabile del Dipartimento di Salute Pubblica e del Laboratorio per la Salute Materno Infantile dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri IRCCS di Milano, l’area dell’ADHD in Italia necessita di una pianificazione migliore, più attenta. Per promuovere modelli di cura standardizzati, per ottenere un monitoraggio sistematico dei casi, per concretizzare un’alleanza tra piccoli pazienti, famiglia, insegnanti e classe medica il percorso è aperto. I Registri Regionali ADHD dove sono attivi rappresentano una risorsa preziosa, unica al mondo per garantire a bambini e adolescenti percorsi diagnostici e terapeutici appropriati e per valutare e monitorare il disturbo a livello epidemiologico (1).
Resistono, tuttavia, ostacoli e limiti a più livelli: dalla scarsa informazione al mancato coordinamento fra servizi locali. Risolvere le questioni aperte, senza abbassare la guardia, è un impegno per gli psichiatri, i neuropsichiatri, gli psicologi e tutti gli operatori che lavorano nel pubblico e nella ricerca. Ma, in tre parole, che Maurizio Bonati ha utilizzato più volte in questa conversazione: “Non è semplice”.
Com’è affrontato l’ADHD dal Sistema Sanitario Nazionale?
Nel mio lavoro pluridecennale nell’ambito del neurosviluppo, posso affermare che il disturbo da deficit di attenzione/iperattività (ADHD), pur essendo uno dei disturbi più comuni, è collocato in un’area negletta, con conseguenze negative per i pazienti e le famiglie. Le ragioni principali sono due: i limiti nelle strutture, nei servizi e negli operatori e i limiti culturali e di conoscenza fra gli operatori stessi. Sto investendo una grande parte della mia ricerca scientifica nell’osservazione e nella valutazione del livello dei servizi dedicati al trattamento dell’ADHD nei bambini e negli adolescenti; per 12 anni ho coordinato il Gruppo Regionale Lombardo, tuttora attivo. Abbiamo messo in discussione i percorsi diagnostici e terapeutici per raggiungere un servizio di alta qualità per bambini e adolescenti. Non è semplice.
Ha parlato di un limite culturale nel personale sanitario.
Questo è un problema profondo che riguarda infatti l’intera classe medica: non è adeguatamente formata sull’ADHD. Sono molti gli psichiatri in attività che hanno studiato su edizioni del DSM (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) nel quale l’ADHD era designato con nomenclature diverse e non corrette. Il problema della formazione, dunque, interessa l’ambito psichiatrico e neuropsichiatrico e coinvolge gli insegnanti e gli educatori. Inoltre, l’intervento e gli esiti, in questo campo, sono poco valutati. Si sa che la misurazione scientifica dell’esito, in psichiatria, è complicata, perché nella maggior parte dei casi non c’è confronto, se non tra medico e paziente. Con il Gruppo Lombardo ADHD abbiamo avviato uno studio osservazionale multicentrico già dal 2011 per valutare la variazione tra centri nell’esito funzionale dei pazienti con ADHD un anno dopo la diagnosi, in base al trattamento ricevuto.
I risultati di questo studio, il primo del genere, sono stati di recente pubblicati su Scientific Reports (2).
Si riferiscono ai dati di un decennio raccolti su 1429 pazienti arruolati in 16 centri ADHD. Al di là dei valori misurati relativi al miglioramento dei pazienti, lo studio ha documentato grandi differenze tra i centri di riferimento.
Quali sono gli ostacoli per le famiglie dei pazienti più piccoli?
Il primo passo, naturalmente, è formulare una diagnosi. Nel pubblico con questa richiesta inizia un iter che spesso rischia di non arrivare a conclusione. Occorrono, infatti, circa cinque, sei sedute per una prima diagnosi. Abbiamo calcolato che dal momento della prima telefonata alla presa in carico in uno dei 18 centri di riferimento in Lombardia l’attesa va da tre mesi e mezzo a un anno, per una media di 177 giorni (3). Trattandosi di bambini, è troppo. In questo ampio periodo, inoltre, possono verificarsi altri disservizi: diagnosi fatte male, personale che cambia. I servizi insufficienti e le liste d’attesa sono il problema di ogni centro regionale; l’impatto sulle famiglie che li subiscono incide negativamente sulla motivazione e sulla soddisfazione. Occorre inoltre considerare che due terzi dei casi di ADHD nei più giovani è caratterizzato da comorbidità.
Cosa succede dopo la presa in carico?
Sono previste da 7 a 10 sedute di terapia. Generalmente, e se il caso non richiede un intervento rapido per la sua gravità, si inizia con la terapia non farmacologica, quindi psicoterapia, individuale o di gruppo, con le famiglie. Abbiamo raccolto fra i genitori dati e storie che testimoniano difficoltà facilmente superabili ma ancora irrisolte. Perché, per esempio, continuare a dare appuntamenti in orari mattutini? Così tutto si complica e diventa difficilissimo attuare terapie psicosociali come il parent training e il teacher training, indispensabili per accompagnare i più piccoli durante il trattamento. Il coinvolgimento delle famiglie non è solo fondamentale: è discriminante, determina il buon esito dei trattamenti.
Il disturbo da deficit di attenzione e iperattività è un disagio enorme in famiglia: provoca separazioni, divorzi, situazioni in cui al bambino può venir meno il supporto necessario. Abbiamo inoltre rilevato che la divisione dei compiti fra genitori è sbilanciata: sono soprattutto le mamme che si preoccupano di accompagnare i figli dallo psicologo e dal neuropsichiatra, così come dal pediatra.
E le terapie farmacologiche?
Come ho premesso, i farmaci sono prescritti immediatamente ai casi più gravi; possono però diventare un ripiego quando l’intervento psicosociale non è disponibile. Le terapie farmacologiche sono efficaci, rapide – agiscono entro due settimane – ma per consolidare i risultati serve la psicoterapia. Affidare ai genitori la gestione della terapia con un’amfetamina, quale è il metilfenidato, è un impegno complesso. Ne sono spaventati per lo stigma profondo, temono l’etichetta di pazzia per i propri figli, ci chiedono se svilupperanno dipendenza. Per questo, occorre che il consueto consenso informato sia “più che informato”, per superare la barriera della paura.
I genitori, in definitiva, si dividono fra quanti comprendono e partecipano attivamente alla terapia e quanti soffrono lo stigma e rifiutano la prescrizione. Abbiamo visto che solo il 10% delle prescrizioni sono rifiutate; ovviamente la barriera alla terapia farmacologica diminuisce quando la forma di ADHD è grave in modo evidente. Anche in questo passaggio si deve intervenire con il lavoro di informazione: è un compito complesso.
È vero che i centri pubblici smettono di occuparsi dei pazienti con ADHD al compimento della maggiore età?
Il passaggio verso l’età adulta, se così possiamo definire il compimento dei 18 anni, è drammatico. Non c’è accompagnamento: i servizi non si parlano, non condividono. Quando un paziente diventa maggiorenne le dimissioni possono arrivare senza preavviso, spesso senza un orientamento, un semplice indirizzo, verso i centri psichiatrici per adulti. Alcuni ragazzi con alle spalle già diversi anni di terapia, anche dieci, vedono ridursi la propria storia clinica in una paginetta. Da quel momento si troveranno in una terra di nessuno e gli esiti possono essere molto diversi.
Solo la metà dei pazienti diventati maggiorenni che neccessita ancora di terapia arriva effettivamente in un servizio psichiatrico e non prima dei due anni (4). I centri ADHD per adulti sono troppo pochi; a Milano, per esempio, sono solo due. Chi ne ha la possibilità, naturalmente, si rivolge al privato, che non ha liste di attesa, ma non sempre ne sa di più.
C’è una soluzione all’interruzione delle terapie?
L’ideale sarebbe iniziare la presa in carico del passaggio già dai 16-17 anni. La transizione è un percorso temporale che deve coinvolgere gli operatori dei due servizi (neuropsichiatria e psichiatria dell’adulto), la famiglia e idealmente il contesto sociale del paziente (scuola). Se questo è fatto per tempo e nell’ambito del percorso terapeutico, la transizione è solo una tappa e non una novità o un ostacolo. Serve quindi una visione un po’ più ampia con il coinvolgimento di più operatori e competenze. Che rapporto hanno oggi queste figure con la neuropsichiatria? In ogni nostra indagine abbiamo riscontrato enormi difficoltà anche soltanto per ricevere dati e informazioni.
Con la collega Francesca Scarpellini abbiamo raccolto e sintetizzato in una revisione i dati sugli ostacoli nei programmi di transizione dai servizi per l’ADHD per bambini a quelli per adulti. Analizzando le esperienze di medici, pazienti, genitori – non solo in Italia – lo studio ha rilevato la necessità urgente di definire e valutare l’efficacia dei programmi esistenti, dalla disponibilità delle informazioni sul disturbo stesso e sui trattamenti alla richiesta di maggiore condivisione. Tutti – medici, pazienti, genitori – hanno espresso le esigenze simili e auspicano un servizio più attento ed efficace (4).
Intervista a cura di Maria Frega
Bibliografia
1. Reale L, Zanetti M, Cartabia M, et al. Due anni di attività del Registro ADHD della Regione Lombardia: analisi dei percorsi di cura diagnostici e terapeutici. Ric & Pra 2014; 30(5): 198-211.
https://www.ricercaepratica.it/archivio/1664/articoli/18220/
2.Cartabia M, Finazzi,S, Bonati M. et al. Differences between centers in functional outcome of patients with ADHD after 1 year from the time of diagnosis. Sci Rep 2023; 13, 18738.
3. Bonati M, Cartabia M, Zanetti M, et al. Waiting times for diagnosis of attention-deficit hyperactivity disorder in children and adolescents referred to Italian ADHD centers must be reduced. BMC Health Serv Res 2019: 19, 673.
4. Scarpellini F & Bonati M. Transition care for adolescents and young adults with attention-deficit hyperactivity disorder (ADHD): A descriptive summary of qualitative evidence. Child: Care, Health and Development 2023; 49(3): 431–443.