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Progetto Interceptor. Paolo Maria Rossini: “Ci aspettiamo risposte scientifiche di interesse straordinario”

Intervista a Paolo Maria Rossini By 27 Ottobre 2023Ottobre 31st, 2023No Comments
IntervisteSpeciali
Interceptor

Quali biomarcatori ed esami sono più utili per diagnosticare la Malattia di Alzheimer nelle persone che presentano un iniziale disturbo cognitivo lieve, prima che la stessa si manifesti in modo conclamato?

È solo una delle domande a cui sta provando a rispondere il progetto Interceptor, il primo studio su base nazionale su pazienti a rischio di Alzheimer, coordinato dalla Fondazione Policlinico “Agostino Gemelli” di Roma e sponsorizzato dall’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) e Ministero della Salute.

“Termineremo il follow-up il 31 ottobre. Avevamo previsto di coinvolgere 500 pazienti che soddisfavano i criteri di Mild Cognitive Impairment (MCI) ma alla fine del follow-up saranno intorno ai 363, perché un 20% circa di drop-out è fisiologico in questo tipo di studi. L’istituto Superiore di Sanità ha già fatto le sue valutazioni statistiche e ha confermato che questa riduzione non inficerà i risultati scientifici”, spiega Paolo Maria Rossini, responsabile del Dipartimento di Scienze neurologiche e riabilitative dell’IRCCS San Raffaele Roma, coordinatore del progetto Interceptor.

Lo studio ha coinvolto soggetti di età compresa tra i 50 e gli 85 anni, reclutati in 20 centri italiani con il supporto di cinque centri specializzati nella diagnosi e nella cura della demenza di Alzheimer. Tutti i pazienti sono stati valutati attraverso sei biomarcatori: test neuropsicologici, dosaggio di proteine su liquor cefalorachidiano, marcatori genetici, tomografia ad emissione di positroni, risonanza magnetica cerebrale ed elettroencefalogramma. Complessivamente, lo studio ha previsto un monitoraggio della durata di tre anni e mezzo, nonostante l’interruzione dovuta alla pandemia.

La storia del progetto Interceptor

“Il progetto Interceptor nasce nel 2016 sulla scorta di notizie mediatiche che davano per sicura l’approvazione di un farmaco in grado di modificare l’andamento naturale della demenza di Alzheimer: aducanumab”, racconta Rossini. “Già all’epoca si conoscevano alcune caratteristiche di questo e altri farmaci della stessa classe. La prima era che il farmaco fosse clinicamente efficace fino a un certo punto, offrendo qualche miglioramento rispetto al placebo. La seconda riguardava il fatto che presentava una percentuale abbastanza elevata di effetti collaterali, alcuni dei quali anche allarmanti, rappresentati soprattutto da micro-emorragie del cervello e edema cerebrale. La terza è che necessitava di una organizzazione ospedaliera ad hoc perché il farmaco va somministrato con delle flebo endovena una volta al mese e va monitorato con risonanze magnetiche, da ripetere ogni due o tre mesi di intervallo, proprio per verificare l’eventualità di effetti collaterali. A queste caratteristiche, bisognava aggiungere il costo elevato”, continua Rossini.

“Ma l’aspetto più importante era che il farmaco aveva dimostrato la sua efficacia soltanto o prevalentemente nei casi davvero molto precoci di malattia o addirittura nei casi prodromici di malattia”. Sulla base di queste caratteristiche, dunque, appariva evidente che non potesse essere somministrato a tutti i malati, anche perché non sarebbe stato sostenibile in alcun modo. “A quel punto, io mi posi due domande: all’indomani della sua approvazione in Italia, il nostro Servizio Sanitario sarebbe stato pronto a organizzarsi per la sua erogazione? E avrebbe avuto uno strumento validato per selezionare all’interno dell’enorme platea di possibili candidati coloro che ne hanno effettivamente necessità e possono trarne beneficio rispetto a coloro che non possono trarne beneficio o che addirittura potrebbero trarne nocumento? La risposta era no ad entrambe le domande”, sottolinea il medico.

Rossini decise quindi di scrivere una lettera all’allora Ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, per sottolineare la necessità di creare un gruppo di lavoro sul tema della diagnosi precoce della malattia di Alzheimer. Da lì prese le mosse un iter che ha visto AIFA stabilire un tavolo “con quelle che allora erano le menti più brillanti e avanzate in termini di ricerca, ma anche di esperienza clinica e organizzazione sanitaria presenti sul territorio nazionale, per scrivere insieme un protocollo di ricerca”, racconta Rossini. Un progetto orientato agli interessi del Servizio Sanitario Nazionale, ci tiene a ribadire il coordinatore di Interceptor.

La popolazione con MCI e il ruolo dei biomarcatori

“Dovevamo scegliere una popolazione rappresentativa di qualcosa di significativo rispetto ai farmaci, per cui ci siamo rivolti alla popolazione con MCI che ha dei deficit oggettivi misurabili con i test neuropsicologici”. Alcuni domini cognitivi, in genere soprattutto quello della memoria, sono alterati rispetto alla popolazione generale, ma in modo talmente lieve che di fatto queste persone mantengono in quello stadio una totale autonomia.

“Tuttavia, se seguiti nel tempo circa la metà di questa popolazione si ammala di varie forme di demenza, soprattutto Alzheimer”, precisa Rossini. “Abbiamo scelto questa popolazione, perché i soggetti che poi si ammaleranno presentano già una forma prodromica in questa fase, dove tutta una serie di fattori protettivi è ancora efficiente. Quindi, l’eventuale farmaco andrebbe a lavorare su un terreno fertile, in grado di reagire. Se, invece, si aspetta che la malattia si manifesti in tutta la sua drammaticità, è probabile che si intervenga troppo tardi. Così, abbiamo pensato che per il Servizio Sanitario del futuro il target ideale potesse essere rappresentato da questa popolazione, che era nelle fasi molto iniziali o prodromiche di malattia”, spiega il medico.

I test neuropsicologici da soli, tuttavia, non erano in grado di discriminare tra la metà che si sarebbe ammalata rispetto a quella che non si sarebbe ammalata. “Per questo, abbiamo aggiunto dei biomarcatori in grado di aumentare sempre di più i livelli di sensibilità, specificità e accuratezza, necessari a identificare con maggiore precisione i soggetti con MCI a forte rischio di sviluppare demenza. All’epoca, facemmo uno screening della letteratura molto approfondito, da cui risultò che i biomarcatori più promettenti da affiancare ai test neuropsicologici più avanzati erano i seguenti: una PET con fluorodesossiglucosio; una risonanza con valutazione della volumetria dell’ippocampo e spessore della grigia; una puntura lombare per fare il dosaggio dei metaboliti della amiloide e della proteina tau; un prelievo di sangue per i marcatori genetici, soprattutto per la ApoE, che ancora oggi è l’indicatore di rischio genetico più affidabile; e infine un’analisi molto avanzata dell’elettroencefalogramma per lo studio della connettività cerebrale, ovvero l’organizzazione e l’architettura delle reti neurali che sottendono determinate funzioni del cervello”.

Ogni sei mesi, tutti i soggetti sono stati sottoposti a una batteria completa di test per un periodo di circa 3 anni e mezzo. Alla fine del follow-up, verranno aperte le buste per scoprire qual è il biomarcatore o, meglio, la combinazione di biomarcatori che aveva previsto con il massimo dell’accuratezza l’andamento nei tre anni e mezzo successivi. Ma il progetto Interceptor sarà in grado di offrire una risposta anche rispetto al relativo rapporto costi-benefici. “Intanto, l’ipotesi è quella di un’organizzazione a piramide in cui sui grandi numeri si possano usare dei biomarcatori a basso costo, disponibili su tutto il territorio nazionale e possibilmente senza rischi per i pazienti. Quindi, al primo livello si potrebbero collocare i biomarcatori in grado di dare un’informazione di base, mentre ai livelli successivi biomarcatori sempre più costosi e tecnologicamente avanzati solo per i soggetti che dovessero risultare ancora dubbi”, spiega Rossini.

Le prime osservazioni

Sul piano organizzativo, sono stati identificati cinque centri esperti, uno per ogni biomarcatore, che hanno supportato i 20 centri reclutatori. Questi sono stati identificati tramite un bando aperto a tutti i centri italiani che si occupavano di Alzheimer. “Qui sono emersi i primi dati interessanti: dei tanti centri che hanno fatto domanda, infatti, pochissimi sono risultati all’altezza del progetto nel Sud Italia, tanto che su 20 centri soltanto Palermo e Napoli sono rappresentate, mentre tutti gli altri sono tra il Centro e il Nord, e al Nord ce ne sarebbero stati molti altri”, rivela il medico.

“Quindi, possiamo già affermare che se oggi arrivasse un farmaco e dovessimo usare qualsiasi strumento che impiega biomarcatori per la selezione della popolazione, dovremmo fare un grosso lavoro di addestramento e di ripopolamento tecnologico al Sud, perché pochissimi sono i centri in grado di portare avanti questo tipo di azione”. Ma è stata fatta anche un’altra osservazione, “questa più sorprendente”, secondo il coordinatore di Interceptor: “Quando riunivamo insieme gli specialisti che si occupavano dei singoli biomarcatori nei 20 centri reclutatori, davamo per scontato che le metodiche utilizzate fossero le stesse. Invece abbiamo scoperto che la realtà era ben diversa, bisognava fare un lavoro di armonizzazione molto profondo. Un’altra dote importante di Interceptor è quella di aver scoperto che mancavano dati normativi per diversi biomarcatori, addirittura nella letteratura internazionale. Quindi, è stato fatto un lavoro di armonizzazione anche su questo aspetto fondamentale per la sanità pubblica”.

Le prospettive del progetto Interceptor

Dei circa 363 soggetti valutati nello studio, “ci aspettiamo che la condizione di un centinaio di pazienti sia progredita a demenza alla fine del follow-up”, dichiara Rossini. “Quindi, avremo uno stuolo consistente di soggetti che al tempo t0 condividevano la stessa condizione e nel corso del follow-up si sono ammalati. Questo significa che al tempo t0 erano già in una fase pre-sintomatica o paucisintomatica. Dal primo novembre apriremo le buste di tutti i biomarcatori e andremo ad accoppiare i relativi risultati con i dati clinici e l’andamento nel tempo dei singoli soggetti, in modo da offrire anche le risposte necessarie sia rispetto alle attuali strategie di contrasto che per la futura prescrizione di farmaci con possibile azione modificante la storia della malattia”, continua il medico.

Le aspettative sono molto elevate, come emerge dalla nostra video intervista al coordinatore di Interceptor. Nel frattempo, dopo aducanumab, negli Statui Uniti è stato approvato anche lecanemab, “che sembra essere meglio dal punto di vista dell’efficacia clinica e degli effetti collaterali, e anche un po’ meno costoso. Ma sono in arrivo altri farmaci, che aprono una serie di prospettive di interesse straordinario, passando comunque per le domande iniziali: ‘A chi li do? E come seleziono la popolazione target?’”, ribadisce Rossini. “Noi abbiamo già fatto la proposta di un Interceptor 2 sia all’attuale Ministro della Salute, Orazio Schillaci, che al Presidente di AIFA, Giorgio Palù. Se arriva un farmaco – e, di sicuro, EMA approverà qualcosa a breve – non si potrà partire subito con grandi numeri e bisognerà validare lo strumento di selezione. Interceptor è pronto. Potrebbe essere l’occasione di sfruttare lo strumento, la sinergia già consolidata tra i centri reclutatori e i centri esperti, e il contingente di pazienti selezionati di cui disponiamo, per iniziare un’erogazione gratuita del farmaco. Così, si potrebbe verificare se il sistema funziona nell’arco di alcuni mesi, al massimo un anno, e poi aprirsi a un’applicazione su larga scala”.

Intervista a cura di Marco Arcidiacono